12/04/09

Domenica 19/04: COSE DI QUESTO MONDO

L'odissea di due profughi afgani, dal Pakistan a Londra

Orso d’oro al Festival di Berlino 2003

La storia di due ragazzi afgani, Jamal e Enayatullah, che dal campo profughi di Peshawar in Pakistan rischiano la vita per riuscire a raggiungere la loro terra promessa, un occidente incommensurabilmente ricco rispetto allo scenario da cui i due giovani provengono e attraverso cui, in un’odissea on the road fra trafficanti di uomini, clandestinità e umiliazioni, sono costretti a passare.

"Cose di questo mondo" non è un documentario in senso stretto, appartiene di più al filone della docu-fiction. Non è un documentario perché la vicenda narrata non è accaduta realmente e si basa su di una, seppur esilissima, sceneggiatura e utilizza un montaggio e una colonna sonora, anche se assume la realtà come mondo di referenza, e la messa in scena è ridotta al minimo: gli attori non professionisti, la luce esclusivamente naturale, una troupe "leggera", e il ricorso alla manovrabilità fisica e alla "trasparenza estetica" del video.

Il film di Michael Winterbottom non è certamente un film perfetto. Prima di tutto perché non è un film, come detto, e non raggiunge il risultato estetico che ci si aspetterebbe da un film, ma soprattutto perché non contiene quella riflessione sul cinema che sembra esser diventata la condizione necessaria e sufficiente per rendere il cinema semidocumentario "digeribile" al pubblico, ma soprattutto alla critica occidentale.

Ma se non c’è più la metafora, rimane comunque uno sguardo, quello di Winterbottom, che ha il coraggio di raccontare una parte della realtà meno (ri)conosciuta di questo mondo, che accade adesso e che vuole impegnare le coscienze e gli sguardi di un pubblico occidentale che troppo spesso, questa sì è ipocrisia, vuole ostinarsi a pensare e vedere quello che non ha sotto gli occhi attraverso una mistificazione che ha nel registro grottesco e nei contenuti del kitsch (East is East, Jalla Jalla) la sua essenza più genuinamente globalizzante. Da donare alla vista, perché il fine (l’impegno civile) a volte deve fare a meno dei mezzi (le forme patinate), per farsi documento dei tempi.

Winterbottom ha volutamente scelto i protagonisti del film nei campi profughi di Peshawar, cosa che lo ha costretto a ridurre all’osso la sceneggiatura, lasciando gran parte dei dialoghi all’improvvisazione dei due personaggi reali. Anche la regia, che ricalca lo stile documentaristico, si affida alla praticità e maneggevolezza di una piccola videocamera digitale e all’assenza di illuminazione artificiale, rinunciando per scelta etica a qualsiasi estetica.

Lo spettatore si identifica così perfettamente nella sofferenza e fatica dei due giovani protagonisti, i cui volti rimarranno scolpiti a lungo nella memoria. Il desiderio dichiarato del regista è mostrare le condizioni di non vita di milioni di persone, non solo chi è perseguitato politicamente e che è oggetto di un trattamento più morbido da parte delle autorità occidentali, ma soprattutto chi è spinto dalla miseria e dall’assenza di prospettive a cercare la fortuna all’estero.

L’obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica a fronte di una migrazione di popoli che ha assunto ormai dimensioni epocali e che non potrà non avere ripercussioni sulla vita di ognuno di noi. Colpiscono lo spettatore anche le scene in cui i ragazzi vendono oggetti inutili, chiedendo di fatto l’elemosina, e che gli occidentali rifiutano garbatamente eppure fermamente. L’indifferenza coinvolge noi tutti e ci rende colpevoli e complici di un traffico di persone che arricchisce la malavita e anche nostri connazionali “onesti” che speculano sulla pelle di persone che non hanno più nulla da perdere.

Un film di denuncia, utile e necessario, che scuote le coscienze di ognuno di noi risvegliandoci dal torpore televisivo e mediatico in cui sembriamo essere irrimediabilmente sprofondati.

(Massimiliano Troni e Mariella Minna, www.centraldocinema.it)

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