26/04/09

Casa dei Diritti Sociali, C.I.R. e Città dell'Utopia a DN

Gli interventi di Carla Baiocchi della Casa dei Diritti Sociali-FOCUS, Marina Bozzoni del Consiglio Italiano per i Rifugiati e Caterina Amicucci della Città dell'Utopia alla sesta serata di Diritti Negati, dedicata al diritto alla libertà di movimento e diritto di asilo.







15/04/09

Migranti, rifugiati e libertà di movimento

In un mondo dove merci e capitali circolano liberamente, la maggior parte degli uomini non possono farlo...

“Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”
ONU, Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Artt. 13 e 14

Domenica 19 aprile alle 20.30 sesto appuntamento con "Diritti Negati", dedicato al Diritto alla libertà di movimento e diritto di asilo.

Ben tre gli interventi di apertura previsti: quello del C.I.R. - Consiglio Italiano per i Rifugiati, quello della Casa dei Diritti Sociali-FOCUS e quello della Città dell'Utopia. Per parlare di migranti e accoglienza, "viaggi della speranza" e traffico di uomini.

A seguire, proiezione del film
COSE DI QUESTO MONDO
("In this world", di Michael Winterbottom, UK 2002)
Orso d'Oro al Festival di Berlino 2003

Saranno inoltre presenti i ragazzi di Amnesty International - gruppo 251 di Roma, per raccogliere firme a sostegno delle loro petizioni.

Il Consiglio Italiano per i Rifugiati è un’organizzazione umanitaria indipendente costituitasi sotto il patrocinio dell’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR). Il suo obiettivo è la difesa dei diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo in Italia.

La Casa dei Diritti Sociali è un'associazione di volontariato laico impegnata nella promozione dei diritti umani e sociali dei settori più deboli della popolazione in Italia e nel Sud del mondo.

La Città dell’Utopia, infine, è un laboratorio sociale e culturale che affronta i principali temi legati ad un nuovo modello di sviluppo locale e globale, più equilibrato, sostenibile e giusto.

12/04/09

Domenica 19/04: COSE DI QUESTO MONDO

L'odissea di due profughi afgani, dal Pakistan a Londra

Orso d’oro al Festival di Berlino 2003

La storia di due ragazzi afgani, Jamal e Enayatullah, che dal campo profughi di Peshawar in Pakistan rischiano la vita per riuscire a raggiungere la loro terra promessa, un occidente incommensurabilmente ricco rispetto allo scenario da cui i due giovani provengono e attraverso cui, in un’odissea on the road fra trafficanti di uomini, clandestinità e umiliazioni, sono costretti a passare.

"Cose di questo mondo" non è un documentario in senso stretto, appartiene di più al filone della docu-fiction. Non è un documentario perché la vicenda narrata non è accaduta realmente e si basa su di una, seppur esilissima, sceneggiatura e utilizza un montaggio e una colonna sonora, anche se assume la realtà come mondo di referenza, e la messa in scena è ridotta al minimo: gli attori non professionisti, la luce esclusivamente naturale, una troupe "leggera", e il ricorso alla manovrabilità fisica e alla "trasparenza estetica" del video.

Il film di Michael Winterbottom non è certamente un film perfetto. Prima di tutto perché non è un film, come detto, e non raggiunge il risultato estetico che ci si aspetterebbe da un film, ma soprattutto perché non contiene quella riflessione sul cinema che sembra esser diventata la condizione necessaria e sufficiente per rendere il cinema semidocumentario "digeribile" al pubblico, ma soprattutto alla critica occidentale.

Ma se non c’è più la metafora, rimane comunque uno sguardo, quello di Winterbottom, che ha il coraggio di raccontare una parte della realtà meno (ri)conosciuta di questo mondo, che accade adesso e che vuole impegnare le coscienze e gli sguardi di un pubblico occidentale che troppo spesso, questa sì è ipocrisia, vuole ostinarsi a pensare e vedere quello che non ha sotto gli occhi attraverso una mistificazione che ha nel registro grottesco e nei contenuti del kitsch (East is East, Jalla Jalla) la sua essenza più genuinamente globalizzante. Da donare alla vista, perché il fine (l’impegno civile) a volte deve fare a meno dei mezzi (le forme patinate), per farsi documento dei tempi.

Winterbottom ha volutamente scelto i protagonisti del film nei campi profughi di Peshawar, cosa che lo ha costretto a ridurre all’osso la sceneggiatura, lasciando gran parte dei dialoghi all’improvvisazione dei due personaggi reali. Anche la regia, che ricalca lo stile documentaristico, si affida alla praticità e maneggevolezza di una piccola videocamera digitale e all’assenza di illuminazione artificiale, rinunciando per scelta etica a qualsiasi estetica.

Lo spettatore si identifica così perfettamente nella sofferenza e fatica dei due giovani protagonisti, i cui volti rimarranno scolpiti a lungo nella memoria. Il desiderio dichiarato del regista è mostrare le condizioni di non vita di milioni di persone, non solo chi è perseguitato politicamente e che è oggetto di un trattamento più morbido da parte delle autorità occidentali, ma soprattutto chi è spinto dalla miseria e dall’assenza di prospettive a cercare la fortuna all’estero.

L’obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica a fronte di una migrazione di popoli che ha assunto ormai dimensioni epocali e che non potrà non avere ripercussioni sulla vita di ognuno di noi. Colpiscono lo spettatore anche le scene in cui i ragazzi vendono oggetti inutili, chiedendo di fatto l’elemosina, e che gli occidentali rifiutano garbatamente eppure fermamente. L’indifferenza coinvolge noi tutti e ci rende colpevoli e complici di un traffico di persone che arricchisce la malavita e anche nostri connazionali “onesti” che speculano sulla pelle di persone che non hanno più nulla da perdere.

Un film di denuncia, utile e necessario, che scuote le coscienze di ognuno di noi risvegliandoci dal torpore televisivo e mediatico in cui sembriamo essere irrimediabilmente sprofondati.

(Massimiliano Troni e Mariella Minna, www.centraldocinema.it)

01/04/09

Zygmunt Bauman e Mike Davis

sull'ossessione sicurezza nella metropoli contemporanea


AL DI LA' DELLA LEGGE (di Zygmunt Bauman)

«Oggi sappiamo», scrive Thomas Mathiesen, «che il sistema penale colpisce le fasce sociali basse» piuttosto che quelle alte. Ciò dipende dalle intenzioni esplicitamente selettive dei legislatori, preoccupati, com'è logico, non della conservazione dell'«ordine in quanto tale», ma di una determinata forma di ordine. Le azioni che potrebbero essere commesse da individui esclusi da quell'ordine sono menzionate nel codice penale, invece derubare intere nazioni delle proprie risorse si chiama «promuovere il libero mercato» e privare famiglie e comunità dei mezzi necessari alla sussistenza si chiama «ridimensionamento» o semplicemente «razionalizzazione». Niente di tutto ciò è mai comparso nella lista degli atti criminali e passibili di punizione.

Inoltre, come ogni unità di polizia diretta contro i «crimini gravi» sa bene, i reati commessi nelle «alte sfere» sono estremamente difficili da far emergere in mezzo alla fitta rete delle attività «ordinarie» e quotidiane delle aziende. Nelle attività che perseguono il profitto personale a spese altrui, il confine tra ciò che è permesso e ciò che non lo è diventa labile e costantemente controverso, nulla a che vedere con atti come scassinare una cassaforte o forzare una serratura.

Non sorprende che, come sostiene Mathiesen, le carceri siano «piene di persone di estrazione sociale povera che hanno commesso furti e altri reati "tradizionali"». Proprio perché definiti in modo insufficiente, i reati «delle alte sfere» sono anche terribilmente difficili da scoprire e ancor più da perseguire. Vengono perpetrati all'interno di circoli chiusi, composti da persone legate da reciproca complicità, lealtà verso l'organizzazione ed "esprit de corps", persone che generalmente adottano sofisticate misure per localizzare, far tacere o eliminare i potenziali controlli.

Tale livello di sofisticazione legale e finanziaria è virtualmente impossibile da penetrare per chi sta fuori. E poi «non hanno un corpo», esistono in uno spazio etereo di pura astrazione: sono letteralmente invisibili, ed è necessaria un'immaginazione analoga a quella di chi commette i reati per cogliere la sostanza di una forma sfuggente. Come a voler proteggere il «crimine delle alte sfere», il controllo in questi ambienti è generalmente incostante o raro, nel peggiore dei casi inesistente. Solo una frode colossale, una truffa le cui vittime - pensionati o piccoli risparmiatori - abbiano un nome e un cognome (e anche in quel caso è necessario attivare le esagerazioni di piccoli o grandi eserciti di giornalisti), può attirare l'attenzione del pubblico e di tenerla fissa per più di uno o due giorni. Il crimine «delle alte sfere» (generalmente «alte» in senso extraterritoriale) può contribuire, o addirittura determinare il senso di insicurezza esistenziale dei cittadini ed è così rilevante per l'Unsicherheit da opprimere gli individui della società tardo-moderna ossessionandoli con la loro sicurezza personale; tuttavia, nemmeno usando grande immaginazione esso può essere percepito, di per sé, come una minaccia a tale sicurezza.

Il pericolo che può essere identificato nel «crimine delle alte sfere» è di ordine totalmente differente. Trovare il modo di portare i colpevoli davanti alla giustizia potrebbe alleviare le paure quotidiane ascrivibili a pericoli più tangibili che si annidano nei quartieri violenti delle città. Tuttavia non si ottiene un grosso capitale elettorale «mostrando di fare qualcosa» contro i «crimini delle alte sfere». E altrettanto poca è la pressione politica esercitata sui legislatori e sui tutori dell'ordine affinché si impegnino a rendere più efficace la lotta contro questo genere di reati. Non c'è paragone con il clamore pubblico che si solleva contro ladri di macchine, scippatori, violentatori, e anche contro i tutori di legge e ordine sospettati di non svolgere efficacemente il proprio lavoro, o di essere troppo indulgenti nel comminare pene carcerarie «a chi se lo merita».

Infine, c'è il grande vantaggio di cui la nuova élite globale gode rispetto ai tutori dell'ordine: l'ordine è locale, mentre l'élite e le leggi cui obbedisce il libero mercato sono translocali. Se i tutori dell'ordine locale diventano troppo invadenti, c'è sempre la possibilità di spostarsi. Ci sono sempre posti dove l'ordine locale non si scontra con le attività del mercato globale, oppure dove i tutori dell'ordine sono pronti a chiudere un occhio.

Tutti questi fattori convergono in un risultato: l'identificazione del crimine con l'underclass (sempre locale) oppure - il che è lo stesso - la criminalizzazione della povertà. Le tipologie criminali più comuni provengono, agli occhi dell'opinione pubblica e quasi senza eccezioni, dai gradini più bassi della società.
I ghetti urbani e le no-go-areas sono considerati terreno fertile per il crimine e i criminali. Nel 1940 Donald Clemmer coniò il termine «prigionizzazione» per indicare i veri effetti della reclusione, profondamente diversi dall'impatto di «rieducazione» e «riabilitazione» che gli attribuiscono i suoi teorici e sostenitori. Clemmer trovò i detenuti assimilati a una «cultura del carcere» profondamente rigida che li rendeva ancora più incapaci di seguire le regole della vita «normale». Come tutte le culture, anche quella del carcere aveva la capacità di auto-riprodursi. Il carcere era e rimane, secondo Clemmer, una scuola di criminalità. Nel 1954 Lloyd McCorkie e Richard R. Korn pubblicarono altre riflessioni che portarono alla luce i meccanismi che rendono le carceri scuole di criminalità. Secondo i dati da loro raccolti, l'intero processo culminante nell'incarcerazione è, in un certo senso, un lungo e strutturato rituale di rifiuto simbolico ed esclusione fisica. Rifiuto ed esclusione puntano a ottenere, attraverso l'umiliazione, che i rifiutati e gli esclusi accettino la propria inferiorità sociale.

Non sorprende allora che le vittime organizzino la loro difesa. Anziché accettare umilmente il rifiuto e convertirlo in auto-esclusione, preferiscono rifiutare chi li esclude. Per questo scopo, gli esclusi ricorrono ai mezzi a loro disposizione, che contengono tutti una certa dose di violenza: la sola risorsa che possa aumentare il loro «potere di disturbo» e che possono opporre allo schiacciante potere di chi li esclude. La strategia di «rifiutare chi li esclude» si fonde rapidamente con lo stereotipo dell'escluso, annettendo all'immagine del criminale il tratto della «propensione alla recidiva».

Le carceri appaiono allora come strumento principale di una profezia auto-avverante. Questo non significa che il crimine non abbia altre origini, significa però che l'esclusione e il rifiuto messi in atto dal sistema carcerario sono parte integrante della produzione sociale del crimine, la cui influenza non può essere nettamente estrapolata dalle statistiche complessive sull'incidenza della criminalità.

(tratto da "Questioni sociali e repressione penale", estratto da "Periferie dell'impero. Poteri globali e controllo sociale" a cura di Silvio Ciappi, DeriveApprodi, 2003)


FORTEZZA LOS ANGELES (di Mike Davis)

Dai giardini ricamati del Westside benestante spuntano come pianticelle inquietanti i cartelli che minacciano 'Risposta Armata!'. I quartieri ancora più esclusivi, situati nei canyon e sulle colline, si isolano del tutto dietro a muri di cinta impenetrabili, sorvegliati da telecamere e guardie armate. A Downtown, il nuovo piano regolatore ha fatto del distretto direzionale della città un vero e proprio castello feudale, le cui torri scintillanti sono separate dai quartieri poveri che le circondano da monumentali bastioni architettonici. A Hollywood, Frank Gehry, star dell'architettura locale, noto per il suo «umanesimo», crea l'apoteosi del look da stato d'assedio con una biblioteca pensata come un fortino della legione straniera. Nel distretto di Westlake e nella San Fernando Valley, la polizia impegnata nella «guerra alla droga», erige barricate permanenti nelle strade e sigilla interi quartieri poveri. A Watts, il costruttore Alexander Haagen ha presentato il suo progetto per ricolonizzare i centri urbani fatiscenti: un centro commerciale «panottico» circondato da reticolati metallici e un distaccamento permanente di polizia, in una torretta di sorveglianza. Infine, alle soglie del prossimo millennio, un ex-capo della polizia propone un «occhio gigante» contro il crimine - un satellite geostazionario a uso delle forze dell'ordine.

Benvenuti nella Los Angeles postliberal, dove la difesa dei livelli di vita di maggior lusso si traduce nella continua repressione dello spazio e del movimento, appoggiata dall'onnipresente Risposta Armata. Questa ossessione per i sistemi di sicurezza fisica e, contemporaneamente, per il controllo architettonico delle delimitazioni sociali, è diventata lo zeitgeist della ristrutturazione urbanistica, il tema centrale del nuovo ambiente edificato degli anni '90. Eppure, la teoria urbanistica contemporanea, pur dibattendo il ruolo delle tecnologie elettroniche nello spazio postmoderno e discutendo la dispersione delle funzioni urbane in una serie di «galassie» nell'agglomerato metropolitano policentrico, ha stranamente evitato di riconoscere la militarizzazione della vita cittadina così cupamente evidente a chi percorre le strade. Nelle sue apocalissi fantascientifiche Hollywood si è rivelata più consapevole e politicamente percettiva, rappresentando una superficie urbana indurita dalle polarizzazioni dell'era reaganiana. Immagini di centri urbani coatti (Fuga da New York, Running Man), squadre della morte poliziesche ad alta tecnologia (Blade Runner), edifici dotati di sensi (Die Hard), Bantustans urbani (They live!), guerriglie urbane di tipo vietnamita (Colors) e così via, per limitarci solo alle tendenze attuali.

Queste visioni distopiche indicano quanto l'odierna faraonica escalation nella sicurezza commerciale abbia soppiantato le speranze di una riforma urbana e di un'integrazione sociale. Le predizioni pessimiste fatte nel 1969, durante l'amministrazione Nixon, dalla National Commission on the Causes and Prevention of Violence si sono tragicamente avverate: viviamo in «città fortezze», brutalmente divise in «cellule fortificate» della società benestante e «luoghi di terrore» dove la polizia combatte i poveri criminalizzati. La Seconda Guerra Civile, cominciata nelle lunghe estati calde degli anni Sessanta è stata istituzionalizzata nella struttura dello spazio urbano. Il vecchio paradigma liberal di un controllo sociale che tenta di bilanciare repressione e riforma, è stato ormai sostituito da una retorica di guerra sociale nella quale gli interessi della middle class e delle classi povere non vengono più presi in considerazione. In città come Los Angeles, sulla cattiva strada della postmodernità, si può osservare la fusione senza precedenti della progettazione urbana, dell'architettura e dell'apparato di polizia in un unico, totale, sistema di sicurezza.

Questa coalescenza epocale ha importanti implicazioni per le relazioni sociali nell'ambiente edificato. In primo luogo, il mercato della sicurezza genera di per sé una sua domanda paranoica. La sicurezza diviene così un bene posizionale definito dall'accesso che il reddito consente a «servizi di protezione» privati o all'appartenenza a speciali enclaves residenziali e quartieri controllati. Come simbolo di prestigio - e qualche volta come linea di demarcazione fra coloro che sono semplicemente benestanti e i veramente ricchi - la sicurezza è unità di misura di una incoluminità personale, ma più ancora dell'isolamento dell'individuo da gruppi e persone indesiderabili nella sfera dell'habitat, del lavoro e dei viaggi.

(tratto da "La città di quarzo. Indagine sul futuro di Los Angeles" di Mike Davis, manifestolibri, 1993)